giovedì 11 febbraio 2010

Oggi come allora - A.


Oggi come allora.
Pioveva. Ero felice nel paradiso dei miei nonni. Il calore del fuoco di un camino, i vestiti stesi ad asciugare, e l’immagine di una donna in abiti d’altri tempi che si affaccendava tra quelle mura, preparava la cena, ravvivava il fuoco… mi sembrava di sentire l’odore di quella vita, il profumo del fumo che riempiva l’aria… nella penombra della stanza c’era una culla di legno, una tavola apparecchiata, più in là una cassa piena di ceppi di legna…
Era una bella giornata. Anche se il tempo non era niente di buono, ero felice come non lo ero da tempo. Sentivo mio padre vicino come non mai, sentivo che mi voleva bene. Quel giorno eravamo forse accomunati dallo stesso amore per quei luoghi, e per chi eravamo, e per i nostri nonni, bisnonni passati di lì prima di noi. Lì loro avevano vissuto, avevano compiuto le loro fatiche, avevano calpestato quella terra, si erano seduti a quel focolare, avevano aperto quelle porte, toccato quegli oggetti. La loro presenza, per me e per lui, era tangibile.
E poi dal paradiso all’inferno.
Perché per me non poteva essere vero. Non doveva.
Lui per me era stato una persona speciale. E non poteva morire. Non così, a 18 anni senza un perché.
E mi sentivo in colpa per il fatto che io ero stata felice come non mai proprio mentre lui moriva.
Era morto e io ridevo.
Era freddo e io stavo al caldo di un camino.
Non volevo accettare il fatto che se ne fosse andato. Perché anche a distanza di tempo, credo che gli volessi ancora bene. Perché era lui.
E inevitabilmente questo ha portato con sé le mille domande che un fatto del genere, la morte di una persona, può portare con sé.
Volevo ribellarmi a quel Dio che aveva permesso che lui morisse. Perché il Dio che lo aveva fatto morire era cattivo. E allora gli urlavo “perché non prendi anche me?”.
Che senso ha vivere e soffrire, amare, legarsi a delle persone, e far sì che le persone si leghino a te, se poi ad appena 18 anni devi morire? Ne vale la pena di passare attraverso tutto questo?
Ogni volta che incontro sua madre per strada mi si stringe il cuore. Perché in lei rivedo lui. Perché in lei vedo il dolore che ha sofferto. Lo vedo nei suoi occhi quando cammina. Nelle sue spalle curve. A volte mi capita di “entrare” in quel dolore. Nel dolore di una madre che ha perso il suo unico figlio.
E non bastano tutte le lacrime di una vita per piangere un figlio. Un figlio non è mai pianto abbastanza.
Non capirò mai il perché della morte di un figlio o di una giovane madre. Un’amica mi diceva che un giorno il “disegno” di Dio mi sarebbe parso chiaro. Che avrei capito. Ancora oggi, a distanza di anni, non ho capito il perché della morte di S. Forse è stata una di quelle cose che non hanno un senso, ma a tutto c’è un senso.
E non posso fare a meno di pormi delle domande perché sono fatta così. Tutto deve avere un senso, un suo scopo. Le persone non muoiono a caso, così come fili d’erba quando si falcia un prato.
A volte mi capita di fermarmi per un istante davanti alla sua fotografia e vorrei che quella foto prendesse vita, che come per magia si animasse. Per sua madre.
Mi dicono che quando Dio chiama a sé qualcuno è perché ha bisogno di un angelo.

Pensare che qualcuno non c’è più un giorno dopo. Questa è una cosa che ti annienta. Perché alla fine non puoi più tornare indietro. E pesa non poter più tornare indietro. Rivivere una volta ancora, una volta che non sia l’ultima.
L’ineluttabilità della morte è quello che spaventa. Quando non c’è più ritorno.
Quando non puoi più sentire e risentire una voce. Non puoi più chiedere amore e conforto. Non puoi più rifugiarti in quelle braccia. Non puoi più.
Vivere e condividere.
Parole dette e non dette.
Baci dati e ricevuti.
Niente più di tutto questo.
E devi abituarti per il resto della tua vita a fare a meno di tutto questo.
Per il resto della tua vita.
Poco o tanto che sia.
Ma come si fa ad abituarsi a fare a meno di una persona? A fare a meno dell’amore di una persona? Di quello che ti sapeva dare?

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