venerdì 5 marzo 2010

Comprendere il dolore - Krishnamurti



Io non so se vi siate mai chiesti seriamente se il dolore possa avere mai fine. L’uomo soffre – non soltanto fisicamente, ma psicologicamente, dentro di sé – da tempo immemorabile. Ha seguito uno schema di dolore senza fine, il modello del vivere e quello del morire, che entrambi por­tano una profonda sofferenza. Non è stato capace, nel corso dei secoli, di risolvere questo problema.
Gli sarà mai possibile – immerso com’è nella corruzione, in una socie­tà che si sta disgregando – vivere una vita felice e intelligente, cioè ricca di sensibilità, di grande gioia interiore, una gioia che non viene mai sfiorata dal dolore? Nel momento in cui ci si pone realmente questa domanda mi chiedo quali sarebbero le risposte possibili. Qualcuno po­trebbe dire che non è possibile, che è meglio lasciar perdere; qualcun altro che è necessario vivere in questo mondo di brutture: con il dolore, la vecchiaia e la morte, con la gioia fortuita, priva di qualsiasi ragion d’essere, oppure che siamo prigionieri in un circolo vizioso che non ha vie di uscita.
Ma se non si mette fine al dolore non vedo in che modo si possa mai raggiungere l’illuminazione, come si possa mai pervenire alla saggezza. La saggezza non è qualcosa che si possa comperare in un negozio, o qualcosa che si possa accumulare; non nasce dalla tradizione e non viene dall’esperienza. La saggezza nasce soltanto quando finisce il dolore; la fine del dolore è la saggezza. Ma noi non sappiamo come fare a porre fine al dolore; non ci siamo mai dedicati con il cuore e con la mente a cercare di scoprire se sia mai possibile per l’uomo mettere fine al dolore, vivere una vita diversa, una vita che non produca questa straziante infe­licità, questa confusione e questa paura. Noi siamo diventati molto acuti nell’indagine analitica, molto cervellotici, molto bravi a dare spiegazioni: siamo come chi non fa altro che arare e non semina mai, mai. Questa intelligenza ci ha reso uomini estremamente terreni; la dimensione terre­na è il coltivare in maniera frammentaria la mente, una mente diventata così straordinariamente acuta, così perspicace che non dice mai «non so». La dimensione terrena è questa mancanza di umiltà. L’umiltà non è una cosa che si possa coltivare come si coltiva un albero, un giardino o un frammento della mente. L’umiltà non appartiene al tempo; per questa ragione non potrete dire: «sarò umile; col tempo raggiungerò quello stato semplice e straordinario della mente che è sempre un fluire di apprendimento, di visione, di ascolto».
La saggezza nasce con l’umiltà. C’è umiltà quando conoscete voi stessi per quello che realmente siete; ma quando coltivate una teoria basata sul sé superiore, sul sé inferiore, sull’atman e tutte le altre invenzioni della fantasia; questo è vanità. Solo una mente libera dallo stato di dolore può amare e conoscere la bellezza dell’amore; può vedere tutto in maniera globale con un solo sguardo: tutta la bellezza della terra e del cielo, le stelle della sera e gli stormi di uccelli che si alzano in volo la mattina; può vedere tutto con un solo sguardo e conoscere la qualità della bellez­za, che è l’amore.
Per porsi la domanda: «Può una mente che è vissuta per diecimila anni, trovarsi in uno stato dove il dolore non la tocca mai?» è necessaria l’umiltà. Per porsi questa domanda e per trovare la qualità di completa innocenza della mente noi dobbiamo capire per intero la struttura e la natura dell’esperienza. L’uomo ha fatto e fa ogni giorno, ogni minuto, migliaia e migliaia di esperienze; non può evitare l’esperienza, l’esperien­za è lì che gli piaccia o no; condiziona la sua mente, che ne sia consape­vole o no. Può questa mente – che è il risultato del tempo, della tradi­zione, il risultato dell’indicibile infelicità dell’uomo – liberarsi dell’espe­rienza? Purtroppo noi pensiamo che l’esperienza sia necessaria, pensiamo di dover fare migliaia di esperienze di ogni tipo per arricchire la mente, per farla diventare estremamente flessibile e chiara, proprio perché ne ha passate tante, ha letto tanto, ha vissuto tanto. Noi pensiamo che l’espe­rienza, grande o piccola che sia, faccia parte essenziale della vita. Andia­mo sempre in cerca di più esperienza – l’esperienza del sesso, di Dio, della virtù, della famiglia, del viaggiare – e sopportiamo a fatica quella quotidiana di monotonia e di solitudine che facciamo quando stiamo per conto nostro. Abbiamo accettato questo modo di vivere.
Con l’esperienza nasce il confronto. Non so se siate mai vissuti senza fare confronti, senza misurarvi con qualcuno più intelligente, più brillan­te di voi; con qualcuno che abbia una posizione superiore alla vostra, che abbia più potere e prestigio; senza confrontarvi con qualcuno che abbia un viso più bello, un sorriso più luminoso, uno sguardo più intelligente del vostro. Dentro di noi non finiamo mai di fare confronti; questo è meglio, questo è di più; il confronto con quel che è stato e quel che dovrebbe essere, gli apprezzamenti continui, a non finire, come quando leggete un annuncio pubblicitario: «Comprate questo, vi renderà più intelligenti»; «Usate quello, vi darà qualcos’altro». Quando c’è il confron­to voi dovete inevitabilmente incoraggiare l’esperienza. Noi pensiamo che se non facciamo paragoni, se non esprimiamo giudizi, siamo ottusi, stu­pidi e che ostacoliamo il progresso. Confrontiamo un quadro con un altro, uno scrittore con un altro, una fortuna con un’altra; pensiamo di raggiungere una certa comprensione dell’esistenza umana attraverso lo studio comparato delle religioni e l’indagine antropologica. È proprio vero che sareste ottusi se non faceste confronti? Oppure l’ottusità la conosciamo soltanto per via del confronto: perché un altro è sensibile, ha lo sguardo vivace, vive senza confusione? È forse confrontandovi con quella persona che diventate consapevoli del fatto che il vostro sguardo è ottuso, che la qualità della vostra mente è confusa? Quel confronto vi aiuta veramente a capire? Da un punto di vista tecnologico il confronto deve esistere, altrimenti non esisterebbe sapere scientifico; ma a parte questo, perché fate confronti? E se non li faceste, che cosa succederebbe?
Mentre ascoltate, lasciate che la mente osservi se stessa; vedrete che è sempre prigioniera dei confronti e dei giudizi. Questo crea insoddisfazione, ed essendo insoddisfatti voi volete qualcosa di più. Volete trovare appagamento e quindi date spazio all’esperienza, all’infinito.
Che cos’è l’esperienza? Dovete capire di che cosa si tratta prima che procediamo oltre e affrontiamo un argomento che richiede una grande comprensione; parleremo di una mente che è totalmente innocente, perché soltanto la mente innocente, la mente molto, molto semplice può vedere quel che è vero e può vedere con chiarezza. Una mente infarcita di esperienza è una mente complicata; ogni esperienza vi ha lasciato un’impronta e per quanto facciate, quella mente non conoscerà mai la felicità dell’innocenza.
Dobbiamo indagare sulla natura dell’esperienza; indagare è come attraversare, anche se la mente non attraversa mai un’esperienza, non la attraversa mai e non finisce mai di fare esperienza. Ogni esperienza lascia un segno, e poiché ci sono anche altri segni, altre impronte di esperienze precedenti, così ogni nuova esperienza viene tradotta dall’esperienza precedente, dalla precedente impronta, dal precedente ricordo. Osservatelo dentro di voi. Si scopre che l’esperienza non può mai liberare la mente, mai; vediamo che se riconosciamo un’esperienza è soltanto perché l’ab­biamo già sperimentata, altrimenti non la riconosceremmo.
L’esperienza lascia un’impronta, questo è un fatto ovvio. Mi avete insultato e la mia reazione a quell’insulto ha lasciato un ricordo; la pros­sima volta che vi incontrerò, porterò con me questo ricordo; e l’incontro con voi, che una volta mi avete insultato, rinforza quel ricordo. Oppure, se mi avete fatto un complimento, se mi avete detto: «Che persona me­ravigliosa siete!», anche quell’adulazione lascia un’impronta, un ricordo, e la prossima volta che vi incontrerò vi sarà un rinforzo del ricordo; diventiamo amici. L’esperienza ha lasciato impronte piacevoli e spiacevoli. Ora, può l’esperienza essere vissuta, essere attraversata in modo tale che quando voi mi insultate io riceva quell’insulto in maniera così com­pleta che esso non lasci traccia, non lasci la minima traccia sulla mia mente, che non lasci alcun ricordo; e che, allo stesso modo, quando voi mi fate un complimento, neanche quel complimento lasci traccia? (Questo significa che la mente non accumula più esperienza). Vi prego, compren­dete l’essenza di questo fatto. La mente, quando riceve un insulto o un apprezzamento è così chiara, così acuta che lo accoglie totalmente perché ha rifiutato l’esperienza. Ve ne prego, fatelo la prossima volta, non cercate semplicemente di farlo, non fate del vostro meglio, ma fatelo realmente perché capite con chiarezza che l’esperienza non libera mai la mente.
Le persone religiose vogliono fare esperienza. Ripetono certe parole attraverso cui si produce un fenomeno isterico che fornirà un’esperienza di qualcosa oltre; e molte giovani generazioni assumono droghe per poter fare una sorta di esperienza trascendente. È sempre lo stesso problema: l’uomo – che ha vissuto una vita così completamente priva di senso, così disperatamente povera da un punto di vista interiore, così monotona, così incanalata in una routine fatta di imitazione – naturalmente vuole qualcosa che gli dia più gioia, che gli dia una visione più elevata, un più alto significato; e così, va sempre in cerca di esperienza; è quel che fate anche voi. Voi volete una prova, volete cercarla, trovarla. Vale a dire che volete farne esperienza. Ma quando capite veramente la natura dell’espe­rienza, quando vedete in che modo si costruisce, quando ne vedete la verità, e vedendone la verità non fate più confronti, allora non seguite più nessuno, allora non esiste più autorità; allora vedrete che nessuno vi condurrà a vette più alte di esperienza.
Quando capirete che ogni giudizio favorisce l’esperienza e che il desiderio di fare più esperienza alimenta le persone che si arrogano l’autorità: i preti, i monaci, quelli che ne sanno di più; quando capirete questo, allora potrete approfondire la questione del dolore e del perché l’uomo soffre non soltanto fisicamente, per gravi malattie, ma anche quando qualcuno muore; del perché soffre quando non riesce a conseguire le mete che si prefigge, quando non si realizza; del perché si sente improv­visamente solo quando non trova sostegno e quando non ha nessuno su cui fare affidamento, quando è lasciato completamente solo; del perché soffre in assoluto. Come ho detto, per comprendere questo deve esserci l’umiltà. Ma voi non siete umili, voi avete letto troppo, cercando di scoprire perché il dolore nasce e in che modo è possibile porvi fine. Così, cercando di eliminare il dolore, siete diventati esseri molto terreni; avete imparato a evitarlo, il dolore, a evitarlo in maniera molto astuta.
Per capire il dolore e la fine del dolore voi dovete capire la paura; non capire intellettualmente o a parole, ma capire venendo alle prese con la paura nella realtà, in modo da trovarvi a faccia a faccia con la cosa in sé. Quando vi trovate di fronte al fatto, il pensiero non entra in azione; quando vi trovate di fronte a un grande shock, a una grande crisi, il pensiero non entra in gioco. Io non so se lo avete mai notato. Nel momento stesso in cui il pensiero entra in azione, il tempo inizia a scorrere. (Devo spiegarvi tutto questo, spiegarvi in che modo il pensiero alimenta il tempo, in che modo il tempo è dolore, in che modo il tempo è paura? Ve lo devo spiegare? Sì? Questo è troppo! Perché voi sapete che cosa significa: una mente che è vissuta di parole e di spiegazioni, una mente resa ottusa e quindi incapace di vedere velocemente, immediatamente la verità di qualcosa; ma voi pensate di capire se la verità vi viene spiegata. Spiegazioni e definizioni servono solo a rendere la mente più ottusa. Vi darò una breve spiegazione, ma la spiegazione non è il fatto. Non vi aggrappate alla spiegazione. Sputatela come qualcosa che non sa di buono).
Il pensiero è tempo, il pensiero è paura. Voi dovete capirlo non a parole ma nella realtà, perché quando vi trovate ad affrontare quell’im­mensa questione che è la morte, per comprenderla, viverla, vederne tutta la bellezza, dovete capire il pensiero come tempo, dovete capire il pensiero come paura. Ieri abbiamo fatto una felice esperienza e il pensiero dice: «Spero di ripetere questa esperienza domani». Guardate quel che è successo: ieri avete fatto un’esperienza piacevole e volete ripeterla doma­ni; il pensiero trattiene quell’esperienza come ricordo e vuole che quell’esperienza si ripeta il giorno successivo. Questo è quel che voi fate riguardo al sesso: l’esperienza di ieri volete che si ripeta domani. Il pensiero ha creato l’ieri e il domani. Ma il domani è incerto; il domani può essere qualcosa di completamente diverso. Tutto quel che il pensiero conosce in realtà è ieri. Il pensiero appartiene dunque all’ieri, il pensiero è vecchio, non è mai nuovo.
Il pensiero – che è esperienza, conoscenza, il coacervo di ricordi immagazzinati da cui il pensare nasce come reazione – crea il tempo in termini di ieri. Ieri ero molto felice, ieri sono stato molto felice, ho contemplato quel meraviglioso tramonto, il sole splendente che si gettava in un mare meraviglioso, e quella nuvola passeggera, di colore rosa inten­so, grande e bella: erano li e adesso sono un ricordo; domani ritornerò sul luogo, ma il sole tramonterà magari senza colori e senza tutta quella bellezza. È molto semplice. Allora, è il pensiero a creare la paura della morte? Domani, in futuro, ci sarà una fine: avete visto così spesso la morte per le strade! Voi conoscete la morte, eccola lì, che cammina tutti i giorni al vostro fianco. E il pensiero la pensa come qualcosa che appar­tiene al futuro, come un tempo a venire; così si crea l’intervallo, il tempo, fra il vivere e il morire. Quell’intervallo, quel tempo, è paura; quel tem­po, quell’intervallo, è creato dal pensiero.
Noi conosciamo la vita e conosciamo la morte. Conosciamo la vita che conduciamo – una vita di conflitti, di confronti, di infelicità, di cuore dolorante, senza amore né bellezza – e poi c’è quella cosa chiamata morte, la fine improvvisa. L’uomo ha inventato varie teorie per spiegare quel che accade dopo la morte. Tutta l’Asia crede nella reincarnazione; ma è semplicemente una speranza, perché se quella credenza facesse veramente parte della vostra vita, oggi voi vivreste rettamente, le vostre azioni e i vostri pensieri sarebbero virtuosi, sareste gentili, generosi, affet­tuosi, perché se non lo foste, nella vita successiva ne paghereste le con­seguenze: questo è quanto insegna la reincarnazione. Ma voi non ci credete, è soltanto un’idea, una speranza: una speranza per l’uomo che ha paura. Dovete dunque riesaminare tutta la questione, riesaminare le vo­stre credenze. Le credenze non hanno mai alcun valore.
L’uomo che ha una fede è un uomo che ha paura. La vita che conduciamo – il vuoto, l’infelicità, il dolore, il conflitto senza fine – è un campo di battaglia; questo è tutto quel che sappiamo. Il campo di battaglia e la paura che quel campo di battaglia che noi chiamiamo morte finisca, è tutto quel che sappiamo. Così, dobbiamo indagare, analizzare, ripensare, guardare con occhi nuovi, in modo che da ciò possa nascere una mente nuova.
Il dolore può finire? Questo significa: la paura può finire? Quando voi piangete la morte di qualcuno state piangendo per voi stessi o per l’altro? Avete mai pianto per un altro? Ascoltate, ve ne prego. Avete mai pianto per un altro? Pianto per quella povera donna o per quel pover’uomo per la strada, con un solo vestito, e per giunta così sudicio; avete mai pianto per loro? Avete mai pianto per vostro figlio che è stato ucciso in guerra? Voi avete pianto, ma era un pianto di autocompassione o avete pianto perché un essere umano è stato ucciso? Se piangete per autocompassione, le vostre lacrime non hanno alcun senso, perché vi preoccupate soltanto di voi stessi; e il voi stessi è un coacervo di ricordi, di esperienze, la tradizione passata; voi state piangendo perché siete stati privati di una persona su cui avete investito gran parte del vostro affetto; ma non era vero affetto. Piangete per vostro fratello che muore, piangete per lui, non per voi stessi. È molto facile piangere per voi stessi perché lui se ne è andato. Vi siete mai chiesti che cosa gli è successo, perché è morto? Conosco tutte le risposte che mi darete. Mi direte che è morto di malat­tia, di incidente; che era il suo karma, il suo destino, che non è vissuto in maniera corretta: spiegazioni, spiegazioni, spiegazioni. State piangendo per le spiegazioni o state piangendo per un altro essere umano? Vi siete mai preoccupati di un altro? Ve ne prego, dovete rispondere a queste domande da soli, perché siete diventati esseri così terreni, così supremamente insensibili. Se aveste pianto per un altro, allora fareste qualcosa. Ma se piangete per voi stessi, per autocompassione, allora diventerete ancora più insensibili. In apparenza voi piangete perché il vostro cuore è commosso, ma il vostro cuore è commosso solo dall’autocommiserazione. L’autocommiserazione vi rende duri, vi chiude, vi rende ottusi, stupidi; questo è quel che gli esseri umani sono diventati, perché hanno versato lacrime su di sé, sul proprio destino; e il loro destino è sempre angusto rispetto a qualche altra cosa.
La fine del dolore è l’inizio della saggezza; la saggezza viene in maniera naturale, facile, con la conoscenza di sé; nasce quando voi sapete che state semplicemente piangendo per voi stessi, piangendo per autocommi­serazione, perché siete soli, perché siete stati lasciati. Sempre voi in lacrime; se voi comprendete questo, se lo comprendete veramente, cioè entrate direttamente in contatto con questa realtà – così come tocchereste un albero, come tocchereste quel pilastro, o una mano – allora vedrete che il dolore è centrato su voi stessi; vedrete che quel dolore è creato dal pensiero, e che è il risultato del tempo. Ho perso mio figlio anni fa; è morto. Ora sono solo, non c’è nessuno a cui possa ricorrere per avere conforto, per avere compagnia; mi viene da piangere, ma è per autocommi­serazione; in realtà, non mi preoccupo affatto per mio figlio. Se lo fossi stato avrei sorvegliato che vivesse rettamente, che mangiasse il cibo giu­sto, che avesse il giusto esercizio, la giusta educazione, perché fosse capace di reggersi da solo, perché fosse un uomo libero. Ma non me ne sono dato pena. Voi non piangete per un altro; voi piangete per il vostro angusto, misero, piccolo sé, che è diventato così straordinariamente intel­ligente nella sua meschinità. Tutto questo potete vederlo accadere dentro di voi – e potete vederlo, se guardate – potete vederlo pienamente, com­pletamente, a colpo d’occhio. Potete vedere l’intera struttura in un atti­mo, senza dar tempo al tempo, senza analizzare; potete vedere la natura di questa piccola e meschina cosa chiamata me, le mie lacrime, la mia famiglia, la mia nazione, il mio credo, la mia religione, il mio paese; tutta questa bruttura, è tutta dentro di voi. Potete vedere quindi che siete responsabili di ogni guerra, di ogni brutalità che si sta perpetrando in questo e in altri paesi. Quando vedete tutto questo con il cuore e non con la mente, quando lo vedete realmente dal profondo del vostro cuore, allora possedete la chiave che metterà fine al dolore. Questa chiave apre la porta a una mente che non è minimamente contaminata dall’esperien­za e che quindi è innocente; e una mente innocente non è una mente resa tale dal pensiero; il pensiero non può fare niente, il pensiero è vecchio; la bellezza dell’innocenza sta nel suo essere sempre nuova e quindi sempre giovane; è soltanto questa innocenza totale che può vedere l’immensità, l’incommensurabile stato della mente, che l’uomo cerca da secoli.



1 commento:

  1. non so dare un vero commento. ma le prealpi sono bellissime. anche dentro di me. poi c'é l'infinito dollore di questo razionalizare la vita. quel pensiero capitalista o anarchico, liturgico. temporale, inutile, brutale. esattamente quello nel cuale vivo. ma mi confonde la primavera e tutto tace nei colori e i profumi che sono anche dentro di me. e mi confondono i ricordi, i monti blu all'orizzonte. cuesta insolente morte che ci uccide da lontano. vorrei essere il volo della brezza profumata che aleggia tra i colori che non sono più immagini ricorrdi ma il cuore libero di tutta l'umanita.

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